Mettere a fuoco l’essenziale

“Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (Prima lettera di Pietro 2:9)

Passare dal buio alla luce, dalla paura alla pace, dalla tristezza alla gioia. Significa questo, in estrema sintesi, conoscere Gesù per me.

Come possa accadere tutto questo, proverò a spiegarlo nelle prossime righe.

Fin dalla mia infanzia ho sentito parlare di Gesù

senza conoscerlo davvero. Me ne parlavano in chiesa, la mia famiglia mi raccontava dei miracoli di Gesù, persino a scuola sentivo nominare Gesù. Eppure non riuscivo realmente a inquadrarlo. Sapevo un sacco di cose sul suo conto, sulla sua persona, ma qualcosa mi sfuggiva, come un dettaglio in una foto un po’ sfocata.

D’altronde, come fai a conoscere realmente qualcuno che non hai mai visto? Sì, a volte parlavo con lui, come mi avevano insegnato a fare fin da bambina…ma come fai a conversare con qualcuno che non risponde?

Crescendo, poi, a questa circostanza se ne aggiunse un’altra, molto importante: in fondo, non avevo così tanto bisogno di Gesù; non avevo bisogno di un’altra persona nella mia vita. Avevo amici, compagni di scuola, una famiglia felice; non c’era posto per qualcun altro.

Eppure,

nel bel mezzo della mia tranquillità, a spezzare le mie certezze, irruppero prepotenti le ansie della mia adolescenza. Sentirsi soli in mezzo agli altri, sentire di non essere abbastanza per piacere agli altri, non abbastanza preparata ad affrontare un mondo che, lontano dall’innocenza dell’infanzia, sembrava non perdonarmi nessun difetto. Finché potevo, fino a quando le mie difese reggevano, riuscivo a nascondere, dietro una maschera ben costruita, insicurezze e ansie. Bastava un sorriso indifferente; era sufficiente tenersi dentro il frastuono delle proprie paure, simulando una pacata indifferenza.

C’era sempre un momento, però, in cui tutto tornava violentemente a galla. Quando ero sola, deponevo la maschera e mi scoprivo fragile, con tante domande e poche, pochissime risposte, e nessuno che potesse realmente capirmi.

Non ricordo quale fosse il giorno esatto,

non ricordo in quale circostanza né da quale paura stessi scappando, ma fu in quel momento che Gesù mi venne incontro. Lo fece in maniera semplice, ma efficace. Come se fosse in un piccolo cassettino della memoria, che improvvisamente si spalancava, mi venne alla mente un verso della Bibbia, che avevo imparato a memoria molti anni prima e che, per diverso tempo, era rimasto incorniciato in un piccolo quadro nella mia cameretta. Diceva: “Così noi possiamo dire con piena fiducia: Il Signore è il mio aiuto; non temerò. Che cosa potrà farmi l’uomo?”
Probabilmente avevo già sentito quelle parole molte volte, ma in quel momento tuonarono nel mio cuore, illuminarono la mia mente, come un lampo che, impetuoso e improvviso, fa luce nel buio. Forse le avevo già sentite, ma non avevo mai realmente compreso la potenza di quelle parole. Cominciai a realizzare in quel momento che non dovevo affrontare da sola i miei giganti, che nessuno mi chiedeva di essere abbastanza forte da risolvere da sola i miei problemi, ma che dovevo essere abbastanza umile da chiedere aiuto all’unico che era stato lì, silenzioso fino a quel momento, col braccio teso, attendendo con pazienza che io mi accorgessi di Lui.

Nel buio del mio bisogno,

cominciò a farsi spazio una luce meravigliosa: la Parola di Dio. Sì, perché quel Dio che io credevo non rispondesse, ora cominciavo a sentirlo. Leggevo la Bibbia e crescevo, in fiducia e in speranza. Scoprivo che Dio non era indifferente, non era lontano, non incastonato in un dipinto, immobile, ma vivo, vicino a me. Leggevo di Gesù e mi innamoravo sempre di più di Lui, del Suo amore, delle Sua saggezza, della Sua bontà. Compresi che le mie paure non erano tanto grandi da potermi schiacciare, perché Gesù le aveva già sconfitte per me; lo aveva fatto sulla croce. La Bibbia, parlando di Gesù alla croce, dice che “erano le nostre lividure che Egli portava, erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato”. Era il mio dolore che Gesù aveva portato sulla croce. E sulla croce lo aveva sconfitto, per sempre. Compresi presto che quella croce apriva per me la via della salvezza; compresi che il progetto di Dio per me era un progetto eterno e che la gioia che invadeva la mia giovane vita era solo un’anticipazione della gioia perfetta, senza fine, che avrei condiviso con Gesù per l’eternità.

Dopo qualche tempo, quello sconosciuto, quella presenza un po’ ingombrante che era stata Dio fino a quel momento, divenne di più, molto di più: il mio creatore, il mio amico, il consigliere, l’aiuto, il maestro, àncora imprescindibile della mia vita.

Come uno spartiacque, conoscere Dio, ha cambiato totalmente quello che è accaduto dopo. Come dice il verso della prima lettera di Pietro, citato inizialmente, tutto quello che è avvenuto dopo nella mia vita è stato proclamare, con parole e con i fatti, “le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa”. Sono cambiate le mie aspettative per il futuro, sono cambiati i miei progetti. Dei timori, talvolta, hanno fatto capolino nella mia vita; dei giganti hanno provato a spaventarmi, ma li ho affrontati mano nella mano con Gesù, colui che mi ha chiamato.

Oggi, a distanza di oltre quindici anni,

continuo a ringraziare Dio, che non mi ha mai lasciato. Molte cose sono cambiate, delle tempeste sono arrivate, dei venti forti hanno soffiato, ma il mio Dio mi ha gelosamente custodito nel palmo della Sua mano, sussurrando al mio cuore, oggi come allora: Io sono il tuo aiuto; non temere.

Grazia